Veduta della città di Como, la città di Renzo dei Promessi Sposi di Manzoni, famosa per la manifattura della seta, la tessitura, per le sue stamperie, per i caffè sotto i portici che si affacciano sul lago e per il Tempio voltiano, che custodisce gli strumenti dei primi esperimenti del fisico Alessandro Volta.

 
Il castello di carte
L'attualità dei classici in tempo di crisi

MARTEDI 10 APRILE 2020 | DI LORENZO FRANZONI | TEMPO DI LETTURA: 3 MINUTI

*Questo articolo è uscito nel numero di Marzo-Aprile 2020 di Terre & Culture, nella rubrica Terre d'autore

 

 

Un alito di vento, una leggera vibrazione, un gesto involontario o consapevolmente azzardato e il nostro castello di carte crolla sulle sue fondamenta. Immaginiamo ora l’uomo alle prese con la costruzione di un edificio di ben più vaste dimensioni, dove al posto delle carte compaiono convinzioni, pregiudizi, sentimenti, credenze, tutti incastrati e bilanciati uno sull’altro a definire la nostra esistenza. Un sistema di valori, potremmo dire, che come il nostro castello di carte richiede pazienza per essere eretto, ma non altrettanto tempo per essere distrutto. Un sussulto, improvviso e fulmineo, getta l’ordine nel caos, l’uomo nella crisi. Una guerra o una qualsiasi calamità - sono queste, fuor di metafora, i nostri aliti di vento, anche se spesso si presentano come tempeste a ciel sereno -, oltre a velare sotto un cumulo di macerie (o carte) ciò che prima era presente, rivelano anche la fragilità di quell’orizzonte di valori entro cui gravitano le scelte dell’uomo. Da sempre. Ecco il volto che si teneva nascosto dietro quel castello tradire i suoi tratti sicuri e l’essere umano mostrarsi indifeso in una terra desolata, di fronte all’oggettiva verità dei fatti.

Guerre, carestie, pestilenze hanno da sempre fatto da riflesso al volto più cupo e miserabile della storia (compresa quello odierna), puntualmente ritratto nella letteratura ora con una spiccata dose di moralismo, ora nella sua più cruda essenza, ora con cifre e date. Sembra di rivivere, in diversi tempi e in altre circostanze, in questo ennesimo momento di crisi, le pagine della Peste di Camus, ambientato durante il secondo dopoguerra in una comunità del piccolo paese di Orano in Algeria, che si scontra all’improvviso con una verità dei fatti che sconvolge la quotidianità, ovvero l’insorgere di una pestilenza che silenziosamente si diffonde tra gli abitanti, o di ripercorrere con la mente, sfogliando i Promessi Sposi di Manzoni, i passi di Renzo che torna a Milano in cerca di Lucia e che rimane atterrito dallo spettacolo che gli si presenta: strade deserte, “nessun segno d’uomini”, il cielo chiuso, l’aria pesante ad aumentare il senso di desolazione e d’abbandono, qualche convoglio di monatti carico di morti per la peste che attraversa le strade deserte e che, come i nostri convogli militari carichi di bare, sembra avere l’ultima parola sulla vita e sulla speranza. L’evidenza dei fatti non poteva più essere negata o travisata con un linguaggio ambiguo: la peste era entrata in Milano, già gravemente colpita dalla carestia, e i malati, insieme con i poveri e gli accattoni, affollavano il lazzaretto, dove i padri cappuccini supplirono eroicamente alle autorità cittadine, incapaci di gestire gli effetti del flagello. Renzo sperimenta il caos, la follia e il dolore, da quando viene scambiato per untore e allontanato, rischiando il linciaggio da parte della folla, a quando, trattenendo a stento le lacrime, assiste impotente alla straziante scena di una madre già contagiata mentre esce dalla propria casa con il cadavere della figlia tra le braccia, quasi agghindata a festa, e l’allunga al monatto, insieme a un piccolo gruzzolo, facendogli promettere che sarebbe stata seppellita così com’era, senza toglierle niente. Il povero Renzo era già stato contagiato nel bergamasco e ridotto in fin di vita, ma dopo essersi rimesso in sesto aveva deciso subito di tornare a Milano in cerca di Lucia, con la quale si ricongiungerà al lazzaretto. La sorte non sarà invece così clemente con Don Rodrigo, quel signorotto che si fa beffe del morbo e poi inorridisce quando scopre su di sè i primi sintomi pestilenziali. A lui Manzoni riserva, in un momento di crisi della società e dei suoi valori, la sorte più miserabile, soprattutto se volontaria, ovvero la solitudine e l’abbandono come egoistica e orgogliosa negazione della natura umana fatta per la comunione, per finire con la morte e il tradimento da parte del suo uomo più fidato, il Griso.

I tempi sono cambiati, così come gli autori e le loro tematiche, ma la fragilità della natura umana, con i suoi difetti e le sue virtù, rimane sempre la stessa.

Ecco così che la storia raccontata dai classici della letteratura, in questi giorni forse strappati alla polvere degli scaffali e riletti con un po’ più di calma, sembra assumere un significato più profondo alla luce delle attuali circostanze, un po’ come quei racconti sulla guerra dei nostri nonni troppo spesso inascoltati nel clima sereno della quotidianità, che invece rappresentano preziose vicissitudini in cui contestualizzare le difficoltà del momento e superarle, magari riordinando le carte sparpagliate ed ammucchiate sul tavolo, e ricostruendo con un insegnamento e qualche libro in più sulle spalle, il fragile castello della nostra esistenza.

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