Figlio illegittimo del marchese Niccolò II d’Este, Borso d'Este governò Ferrara per quasi un ventennio, proteggendo le arti e l'università. A lui si devono gli affreschi del Salone dei Mesi a Palazzo Schifanoia (particolare in foto), oltre a numerose opere di ampliamento e recupero di edifici storici.

 
La Ferrara degli Este
Il secolo d'oro del mecenatismo

MARTEDI 10 AGOSTO 2020 | DI LORENZO FRANZONI | TEMPO DI LETTURA: 3 MINUTI

*Questo articolo è uscito nel numero di Luglio-Agosto 2020 di Terre & Culture, nella rubrica Terre d'autore

 

 

Ferrara occupa nel XV secolo una posizione strategica all’interno della pianura padana, dove la politica della signoria estense che oltre alla capitale comprendeva anche Modena e Reggio Emilia si univa alla magnificenza e splendore della vita culturale, che acquistò in breve tempo rinomanza a livello europeo. Dal Marchese Leonello d’Este al duca Borso fino al suo successore, il fratellastro Ercole I, si affaccia una lunga stagione fortunata, che porta continuità e lustro alla città. Tra l’immagine colta di Leonello d’Este, appassionato della cultura umanistica ( alla cui corte giunsero artisti pittori e architetti come Piero della Francesca e Leon Battista Alberti) e quella pragmatica di Ercole, che diede a Ferrara il suo volto moderno, si inserisce la figura di Borso, politico accorto, la cui  amministrazione della città era tutta rivolta all’esaltazione della propria immagine come principe buono e giusto, compresa ogni sua impresa artistica, come la celeberrima Bibbia di Borso, capolavoro della miniatura italiana del Rinascimento ora alla Biblioteca Estense di Modena, o la sua più grande opera come mecenate sfarzoso, ovvero il ciclo iconografico del Salone dei Mesi a Palazzo Schifanoia.

Borso non amava la letteratura latina, come suo fratello Leonello. Prediligeva invece quella cavalleresca di stampo francese come la Chanson de Roland o l’Entree d’Espagne, poemi epici scritti tra l’XI e il XIV secolo dei quali i suoi ambasciatori presso le altre corti europee e italiane erano costantemente alla ricerca. Il ruolo che fu della letteratura per Leonello venne di fatto occupato dall’astrologia durante il ducato di Borso d’Este: non faceva nulla se non appoggiato dal parere sulle stelle dei suoi astrologi di corte, primi fra tutti Michele Savonarola o Pellegrino Prisciani, erudito bibliotecario e ideatore del ciclo di Schifanoia. Il nome di Borso è legato per lo più alla trasformazione del territorio, in particolare all’opera di bonifica delle paludi che intraprese nel ducato, soprattutto nell’area del Polesine, allora terra ostile e poco salutare. Non è un caso che tra le insegne che lo accompagnano compaia l’immagine  dell’unicorno che purifica l’acqua intingendovi il proprio corno, o l’insegna del paraduro, una staccionata in legno che venne utilizzata durante le bonifiche per modificare gli argini del Po.

Tra il 1455 e 1461 segue personalmente la costruzione della Certosa, il monumentale cimitero di Ferrara, e fa restaurare e ampliare diversi palazzi in città, come Palazzo Paradiso, ora sede della Biblioteca Ariostea, oltre a diverse Delizie di campagna e città, come Belfiore, Belriguardo o la stessa Schifanoia, belle dimore ricche di saloni, scale, giardini e canali.  Era qui dove la corte era solita ritirarsi, era qui dove il fasto, lo stile di vita e l’opulenza emergevano in tutta la loro grandiosità e complessità, anche se ora rappresentano per la maggior parte un ricordo sbiadito dal tempo e devastato dalle vicende della storia. Ma è sul finire del Quattrocento che il mecenatismo artistico trova un degno completamento nell’opera di Ercole I e nella sua grande visione urbanistica che triplicò l’area all’interno delle mura cittadine. Il duca che trascorse l’infanzia tra la corte del re di Napoli Alfonso e i numerosi viaggi per studiare le architetture di Firenze, Roma, Orvieto e Siena. In questa armonia d’insieme,  si pratica la musica, si sperimenta il teatro classico con traduzioni nella lingua volgare, nascono commedie e il poema cavalleresco in ottava rima che esalta ancor di più la fortuna del momento, quella stessa fortuna o gloria estense che Ludovico Ariosto non si esime dal sottolineare nell’Orlando Furioso, composto una decina d’anni dopo la morte di Ercole I, la cui corte egli aveva frequentato in giovinezza, poco più che vent’enne, dove era stato assunto come stipendiario di corte, incaricato dell’organizzazione di feste e della composizione di testi per gli spettacoli teatrali: Ercole or vien, ch’al suo vicin rinfaccia, col piè mezzo arso e con quei debol passi, come a Budrio, col petto e con la faccia il campo volto in fuga gli fermassi; non perché in premio poi guerra gli faccia, né, per cacciarlo, fin nel Barco passi. Questo è il signor, di cui non so esplicarme se fia maggior la gloria o in pace o in arme.

Anche il poeta Boiardo gravitò intorno alla corte di Ercole I, già suo caro amico, dal 1476, dove iniziò a comporre oltre all’Orlando Innamorato, poema epico che fondeva elementi della tradizione carolingia con quella bretone, scritto sotto le pressanti richieste degli Este, appassionati di materia cavalleresca, anche vari versi in latino che non mancavano di encomiare la figura del duca.

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