Caravaggio, Vocazione di San Matteo, 1600, Cappella Contarelli, Roma
VENERDI 20 GIUGNO 2025 | TESTI E FOTO DI SEBASTIANO COLETTA | TEMPO DI LETTURA: 8 MINUTI
*Questo articolo è uscito nel numero di Maggio-Giugno 2025 di Terre & Culture nella rubrica News - In mostra.
I sentimenti contrastanti dell’umanità sulla tela del mondo: Caravaggio ha saputo raccontare l’uomo come nessun altro artista nella storia. La mostra dedicata al pittore milanese nelle sale di Palazzo Barberini, a Roma, curata da Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi, Thomas Clement Salomon e fruibile fino al 6 luglio, riassume l’essenza delle sue pennellate intense, piene di tenerezza, di paura, di rabbia. Piene d’amore.
È il caso, ad esempio, del Concerto, databile al 1597 circa, opera giovanile, tra le prime a essere commissionate dal cardinale Francesco Maria Del Monte, che colse il genio di Michelangelo Merisi, diventandone raffinato estimatore e protettore. La musica non c’è, eppure sembra di ascoltarla dagli strumenti suonati dai tre giovani in abiti classici. È ancora piuttosto evidente l’influenza dei maestri di Caravaggio, il Peterzano e il Cavalier d’Arpino, tra gli esponenti del tardo manierismo. Risalta all’occhio il ragazzo che suona il cornetto sullo sfondo: un autoritratto giovanile del pittore, la sua firma più autentica, che ritroviamo nel Bacchino Malato dipinto un anno prima, nel 1596 (temporaneamente esposto a palazzo Barberini, ma conservato nella Galleria Borghese). Il liuto esegue la melodia riportata sullo spartito tenuto in mano dal giovane di spalle e che è possibile leggere, come quello nel dipinto di Santa Cecilia che suona l’organo attribuito al senese Rutilio Manetti (1618-25 circa), che si trova a Taranto, nella collezione “Ricciardi” del Museo Archeologico.
La dinamicità della scena è simile al coevo I bari, dove protagonista è il vizio, che potremmo definire l’alter ego di Caravaggio. Proprio perché viveva ogni giorno le taverne e gli ambienti “profani” della Roma papalina del ‘600, il pittore riesce a rendere con straordinario realismo le debolezze umane di cui quegli ambienti erano intrisi. In fondo cos’è l’uomo, se non un essere imperfetto, che, proprio in quanto tale, può essere indicato dalla grazia divina? È il caso del Matteo della cappella Contarelli, che possiamo ammirare a San Luigi dei Francesi. Ambientato in una taverna, della Vocazione di Matteo colpisce il fascio di luce che abbraccia Levi avvolto dalle ombre di un’umanità corrotta. Il dito di Gesù appare una chiara allusione alla Creazione di Adamo di Michelangelo Buonarroti, un segno di continuità con quella energia divina che è l’ “Amor che move il sole e l’altre stelle”, per dirla con Dante.
Un amore che, tornando alla mostra, ritroviamo nell’intensa Conversione di Saulo, dipinta su tavola di cipresso nel 1600-01, nella quale il brillante allievo del rabbino Gamaliele, a caccia dei discepoli di Gesù di Nazareth, viene fermato da Cristo sulla via di Damasco: caduto da cavallo, Saulo si copre il volto accecato dalla luce di Dio, mentre Gesù, sorretto da un angelo, gli tende amorevolmente le mani. «Perché mi perseguiti?», domanda Gesù a un Saulo che ha perso ogni certezza ma sta per abbracciare la speranza. Prima versione della tela commissionata dal Cerasi che ritroviamo nell’omonima cappella in Santa Maria del Popolo, la Conversione Odescalchi è molto più ricca. Contrariamente alla tesi diffusa dal rivale di Caravaggio, Giovanni Baglione, ossia che l’opera non piacque al committente, è, invece, probabile che il pittore realizzò il dipinto, insieme alla Crocifissione di San Pietro, prima che la cappella fosse completa. Trovandosi davanti a una spazialità diversa da quella immaginata, Caravaggio fu costretto a fare una seconda versione di entrambe più adeguata al contesto. Cruento e spettacolare lo schizzo di sangue che attraversa la tela di Giuditta e Oloferne (1599-1602 circa): una giovane vedova ebrea decapita, non senza renitenza, il generale assiro Oloferne, che si era invaghito di lei. Approfittando dell’ubriachezza di Oloferne, Giuditta libera il suo popolo, ma non ha la stessa espressione fiera e determinata della tela di Artemisia Gentileschi: la Giuditta di Caravaggio è meno “femminista”, ma forse più intimista, mentre nel volto di Oloferne notiamo le stesse incredulità e rabbia della Medusa custodita agli “Uffizi” di Firenze.
Caravaggio, Giuditta e Oloferne, 1603, Palazzo Barberini, Roma
Se la Marta e Maria Maddalena (1598-99) è un invito a rifuggire dalla vanità umana - rappresentata dallo specchio convesso - per abbracciare la vera fede, è nella coeva Santa Caterina d’Alessandria che le ombre vengono accentuate, creando l’emblematico contrasto chiaroscurale che ha colpito il mondo: qui comincia la vera rivoluzione della pittura, dopo la crisi del Rinascimento che aveva portato alla nascita di varie correnti come il manierismo. Caravaggio stravolge i canoni dell’arte riformata, che rifiutava l’idea dell’uomo al centro dell’universo per un forzato ritorno alla trascendenza medievale.
L’ombra rappresenta il male, che è lontananza dal bene, dalla luce di Dio, riprendendo il pensiero filosofico di Agostino. Caravaggio usa modelli in carne e ossa: uomini del quotidiano, prostitute che diventano madonne e sante. Perché l’uomo non è divino, ma è Dio a farsi uomo, che, ricordando alcuni versi di De André, se non è un giglio, è pur sempre figlio, vittima di questo mondo. Nel Davide con la testa di Golia (1609-10) è tutta l’angoscia di Caravaggio in fuga dopo l’omicidio di Ranuccio Tomassoni. La stessa sofferenza che, per esempio, ritroveremo, due secoli più tardi, nel Vecchio che soffre di Vincent van Gogh, che da Caravaggio eredita l’attenzione per l’umanità vera. La testa mozzata di Golia è un autoritratto del pittore, il suo incubo per l’incombente condanna a morte per omicidio, che lo costringe a un esilio fisico da Roma, ma anche interiore dalla gioia della vita.
Nella penultima sala espositiva, il protagonista indiscusso è l’ Ecce Homo, custodito al Prado di Madrid. Secondo la storica dell’arte Maria Cristina Terzaghi, d’immediata attribuzione caravaggesca sarebbero lo sgherro sullo sfondo e Ponzio Pilato, mentre meno scontato sarebbe il Cristo flagellato e coronato di spine che il governatore romano esibisce alla folla. Acceso e per nulla domato il dibattito: molto concreta l’ipotesi, suffragata da diversi critici, della mano dello Spagnoletto, tra i maggiori caravaggeschi napoletani. Peraltro a Caravaggio è già un’altra attribuzione, non scevra da dubbi, dell’ “Ecce Homo” custodito a Genova. La speculazione critica nulla toglie al valore dell’opera esposta a Roma, che, di Caravaggio o meno, ci consegna l’immagine di un uomo che va incontro alla morte con rassegnazione e dignità, “come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori” (Isaia 53: 7).
Gli fa eco la Flagellazione di Capodimonte (1610), dove le fruste fendono l’aria e conferiscono movimento alla scena, in cui Gesù manifesta nel silenzio tutta la sua divinità. Silenzio è anche nel Martirio di Sant’Orsola, forse l’ultima tela dipinta da Caravaggio pochi giorni prima di partire per Porto Ercole, dove morirà il 18 luglio del 1610.
Caravaggio, Martirio di Sant'Orsola, 1610, Gallerie d'Italia, Palazzo Piacentini, Napoli
Trafitta dal re unno Attila, Orsola guarda alla ferita con un’impassibile serenità: la sofferenza umana non può toccarla, perché Dio è nel suo cuore. Nell’ultimo restauro sono emerse altre tre figure: un pentimento di Caravaggio? Il dubbio, sollevato da alcuni, su quale metodo di restauro sarebbe stato più filologicamente corretto, è inevitabile… ma la meraviglia mette a tacere ogni voce per far parlare i colori di Caravaggio, che descrivono il ‘600 turbolento in cui fu arso sul rogo Giordano Bruno, ma che ci ha anche consegnato un patrimonio d’inestimabile valore, di cui noi contemporanei forse non siamo degni.
“Luces et tenebrae” di un mondo devastato dai conflitti e dalla povertà, dove, nonostante tutto, in fondo al vaso di Pandora, ci resta la speranza che l’arte sublima fino al cielo.